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Ti assumo solo se sei alta.

novembre 25, 2013
by Pietro Cotellessa
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Con sentenza n.25734 del 15 novembre 2013 la Corte di Cassazione Sez. Lavoro ha rigettato il ricorso promosso da una grande azienda di trasporti italiana contro la sentenza della Corte di Appello di Roma che dichiarò il diritto all’assunzione di un’aspirante Capo Servizi treno a far data dal 05.05.2004, condannando la parte datoriale al risarcimento del danno in misura pari alle retribuzioni contrattualmente dovute dalla data anzidetta sino a quella della pronuncia, oltre alla rivalutazione e interessi dalla maturazione di ciascun credito al saldo.

La controversia è nata da un giudizio di inidoneità dell’azienda a svolgere le mansioni anzidette di una candidata che aveva superato tutta la selezione per l’assunzione, ma che era stata giudicata inidonea esclusivamente per insufficienza della statura, fissata in m. 1,60 dal bando di concorso.

I Giudici sono stati chiamati a valutare, quindi, la legittimità del criterio richiesto. In tal senso hanno ritenuto che non vi fosse funzionalità del requisito richiesto rispetto alle mansioni, mediante l’accertamento delle stesse e verificato che l’attività richiesta potesse essere svolta anche con una statura inferiore a quella indicata nel bando.

Hanno altresì ritenuto sussistere un carattere indirettamente discriminatorio di un limite di statura (m. 1,60) uguale sia per gli uomini che per le donne.

Per questi motivi la Corte ha deciso per il rigetto del ricorso, con condanna alle spese di lite.

Avv. Pietro Cotellessa

 

Legittimo il licenziamento del lavoratore che registra le conversazioni dei colleghi di lavoro.

novembre 25, 2013
by Pietro Cotellessa
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Con la sentenza n. 26143 del 21 novembre 2013, la Corte di Cassazione ha ritenuto legittimo il licenziamento del dipendente che registrava le conversazioni dei colleghi (nello specifico una equipe medica) per provare il mobbing a cui era sottoposto, a suo dire, dagli stessi colleghi.
Nella fattispecie il Supremo Collegio ha condiviso il motivo adotto dall’azienda nel provvedimento espulsivo. Si è concretato, si legge in sentenza, un comportamento tale da integrare un’evidente violazione del diritto alla riservatezza dei colleghi, avendone registrato e diffuso le conversazioni intrattenute in ambito strettamente lavorativo alla presenza del primario ed anche nei loro momenti privati svoltisi negli spogliatoi o nei locali di comune frequentazione, utilizzandole strumentalmente per una denunzia di mobbing rivelatasi, tra l’altro, infondata.

Da ciò é conseguito, secondo quanto rilevato dalla Suprema Corte, il venir meno del rapporto fiduciario tra il datore di lavoro e il lavoratore nonché la mancanza di collaborazione creatasi all’interno dell’equipe medica di cui faceva parte il lavoratore indispensabile per il miglior livello di assistenza e, quindi, funzionale alla qualità del servizi.

Avv. Pietro Cotellessa

Legittimo il licenziamento per il lavoratore che si rifiuta di seguire le indicazioni del datore di lavoro

novembre 21, 2013
by Pietro Cotellessa
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La Corte di Cassazione Civile, sezione lavoro, con sentenza n. 25392 del 12 Novembre 2013 si è espressa per l’illegittimità del rifiuto del lavoratore all’utilizzo di dispositivi di salvaguardia individuali, come, nel caso di specie, gli occhiali di protezione.

Il rifiuto reiterato al loro utilizzo ha comportato l’applicazione di diverse sanzioni disciplinari, sino al licenziamento.

“All’interno del rapporto di lavoro subordinato – scrivono gli ermellini- non è legittimo il rifiuto del lavoratore di eseguire la prestazione lavorativa nei modi e nei termini precisati dal datore di lavoro in forza del suo potere direttivo, quando il datore di lavoro da parte sua adempia a tutti gli obblighi derivantigli dal contratto (pagamento della retribuzione, copertura previdenziale e assicurativa etc.), essendo giustificato il rifiuto di adempiere alla propria prestazione, ex art.1460 cc, solo se l’altra parte sia totalmente inadempiente, e non se vi sia una potenziale controversia su una non condivisa scelta organizzativa aziendale, che non può essere sindacata dal lavoratore, ovvero sull’adempimento di una sola obbligazione, soprattutto ove essa non incida (come avviene per il pagamento della retribuzione) sulle sue immediate esigenze vitali”. Questo l’importante principio enunciato dalla Suprema Corte, con il conseguente rigetto del ricorso proposto dal lavoratore licenziato.

Avv. Pietro Cotellessa

Rischia il posto chi gioca col pc a lavoro

novembre 10, 2013
by Pietro Cotellessa
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Con sentenza n. 25069 del 7 novembre 2013 la Corte di Cassazione – Sezione Lavoro valutando il caso di un impiegato di un’azienda farmaceutica, cui veniva contestato di aver giocato al pc dell’ufficio “in continuazione” per circa 260-300 ore in un anno, ha stabilito che, essendo emerso il comportamento scorretto, l’azienda non ha l’obbligo di contestare al lavoratore le singole partite giocate.

La Corte d’Appello di Roma nel 2010, infatti, aveva dichiarato nullo il licenziamento ritenendo “generica la contestazione che fa riferimento ad un solo episodio tanto da non consentire al lavoratore una puntuale difesa”. Non è di questo avviso la Sezione lavoro della Suprema Corte che nella sentenza evidenzia come “l’addebito mosso al lavoratore non può essere ritenuto generico per la sola circostanza della mancata indicazione delle singole partite giocate abusivamente dal lavoratore”.

Quindi “appare illogica la motivazione della sentenza impugnata che lamenta indicazione specifica delle singole partite giocate, essendo il lavoratore posto in grado di approntare le proprie difese anche con la generica contestazione di utilizzare in continuazione, e non in episodi specifici isolati, il computer aziendale”. Gli ermellini hanno pertanto rinviato alla Corte d’Appello di Roma per un nuovo giudizio. Ora l’impiegato rischia il licenziamento.

Avv. Pietro Cotellessa

 

Licenziabile la cassiera che accumula punti con la spesa altrui

novembre 05, 2013
by Pietro Cotellessa
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La Corte di Cassazione con sentenza n. 24588 del 31.10.2013 ha confermato il licenziamento,

per giusta

causa, della cassiera di un supermercato che utilizzava la “Carta punti” caricandoci su la spesa dei clienti privi della tessera fedeltà, respingendo il ricorso della dipendente contro il diniego di reintegro stabilito dalla Corte di appello di Catania.

Per la Suprema corte i giudici di merito, correttamente, hanno proceduto “ad un attento esame degli addebiti contestati alla lavoratrice rilevando che la stessa aveva utilizzato in modo improprio la Carta Club Sma per acquisti di clienti sprovvisti della carta con conseguente accumulo in proprio favore dei punti necessari al ritiro di 88 premi tra il 2002 e il 2003 e 4 premi nel mese di aprile 2004”.

Il comportamento della cassiera, “oltre che rilevante sul piano disciplinare, per essere detta utilizzazione espressamente vietata dalle disposizioni aziendali, è stato considerato grave ai fini della lesione del vincolo fiduciario”.

Bocciata, dunque, la doglianza della cassiera che lamentava la mancata affissione del codice disciplinare. Per Piazza Cavour, la Corte territoriale “facendo buongoverno del consolidato indirizzo giurisprudenziale, ha ritenuto che non fosse necessaria l’affissione disciplinare in termini di garanzia ex art. 7 -1° comma – della legge n. 300 del 1970, trattandosi di situazione contraria all’etica comune o comunque concretizzante violazione dei doveri fondamentali connessi al rapporto di lavoro”.

Neppure sono state accolte le censure relative alla gravità della sanzione irrogata, in quanto in Appello è stato valutato proprio questo aspetto tenendo conto sia della “reiterazione della condotta vietata” sia della proporzionalità della sanzione “in rapporto alle sue delicate mansioni di cassiera”. 

 

Avv. Pietro Cotellessa

Cassazione: illegittimo il licenziamento del lavoratore che non si presenta nella nuova sede se il trasferimento non è motivato

novembre 03, 2013
by Pietro Cotellessa
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La Corte di Cassazione con sentenza n. 24260 del 28 ottobre 2013, ha accolto il ricorso di una lavoratrice avverso la sentenza con cui la Corte d’Appello aveva ritenuto legittimo il licenziamento intimatole dalla società datrice, appaltatrice del servizio di pulizie presso la sede dell’A., che a causa di problematiche insorte tra quest’ultima e la propria dipendente, aveva deciso di spostare la lavoratrice presso altri due appalti; la decisione era stata giustificata dal pericolo di perdere l’appalto per gli inconvenienti determinati dalla condotta della dipendente. La lavoratrice aveva chiesto i motivi del provvedimento, qualificato come trasferimento e non si era presentata presso i due appalti ai quali era stata destinata.

La società aveva quindi contestato la assenza ingiustificata dal lavoro ed all’esito della risposta aveva intimato il licenziamento per giusta causa.

La Suprema Corte ha precisato che dalla successione cronologica della corrispondenza inter partes risultava la violazione da parte della società del termine di 7 giorni di cui all’art. 2 L. n. 604 del 1966 e tale circostanza, avente carattere di decisività non è stata considerata dal giudice di appello.

In ragione della applicazione analogica della richiamata disciplina in tema di licenziamento – proseguono i giudici di legittimità – “ove accertata la inosservanza del termine per la comunicazione dei motivi del trasferimento, il trasferimento dall’appalto A. deve considerarsi illegittimo; in conseguenza anche la condotta della lavoratrice ritenuta dalla sentenza impugnata integrare la giusta causa di licenziamento deve essere riesaminata alla luce di tale accertamento.”

Ai fini dell’efficacia del provvedimento di trasferimento del lavoratore, non è necessario che vengano contestualmente enunciate le ragioni del trasferimento stesso, atteso che l’art. 2103 c.c. nella parte in cui dispone che le ragioni tecniche, organizzative e produttive del provvedimento suddetto siano comprovate, richiede soltanto che tali ragioni, ove contestate, risultino effettive e di esse il datore di lavoro fornisca la prova; pertanto, l’onere dell’indicazione delle ragioni del trasferimento, che in caso di mancato adempimento determina l’inefficacia sopravvenuta del provvedimento, sorge a carico del datore di lavoro soltanto nel caso in cui il lavoratore ne faccia richiesta - dovendosi applicare per analogia la disposizione di cui all’art. 2 della legge n. 604 del 1966 sul licenziamento.”

Avv. Pietro Cotellessa

Mini guida al recupero crediti di lavoro – F.A.Q.

novembre 03, 2013
by Pietro Cotellessa
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Questa vuole essere una piccola guida per tutti coloro che si trovano ad affrontare un problema sempre più frequente negli ultimi tempi, ovvero il mancato pagamento dello stipendio da parte del datore di lavoro.

Di solito quando il lavoratore arriva a rivolgersi all’ avvocato ci si trova a dover rispondere più o meno alle stesse domande. Ciò perché la disciplina legale si incardina su alcuni passaggi fondamentali del codice civile e le perplessità e i dubbi di coloro che si trovano a dover fronteggiare un insoluto, dipendono da pochi elementi costanti.

Per questa ragione ho raccolto le principali domande che vengono poste nel corso del colloquio con l’avvocato e ho preparato una sintesi della procedura di recupero del credito e delle sue possibili varianti che vuole essere d’aiuto a chi si deve approcciare al legale, oltre che utile per consentire la gestione della pratica nel modo più chiaro, efficace ed economico.

E’ ovvio che un’assistenza qualificata non può essere sostituita dalla semplice lettura della presente guida, i casi particolari sono infiniti.

Affidarsi ad un avvocato giuslavorista costituisce, quindi, certamente la soluzione più efficace.

 ***

1. NON MI PAGANO PIU’ LO STIPENDIO / HO LASCIATO IL LAVORO DA TEMPO SENZA AVER PERCEPITO LE ULTIME MENSILITA’ ED IL TFR. DEVO ASPETTARE?

In questi casi quello che conta è l’essere tempestivi e non confidare nella buona volontà altrui perché il ritardo nella tutela dei propri diritti potrebbe portare gravi pregiudizi. Spesso solo i creditori più attivi riescono ad ottenere il pagamento del dovuto. Questo accade perché quando un’azienda collassa non c’è sufficiente patrimonio per accontentare tutti i creditori.

In tale frangente si deve perciò scegliere se vogliamo essere fra quelli che saranno pagati o se ci accontentiamo di restare fra quelli che aspettano che succeda qualcosa.

Aspettare troppo può allora voler significare che l’azienda è passata dallo stato di crisi al collasso e non c’è più altro da fare che proporre istanza di ammissione al passivo fallimentare e presentare la domanda di erogazione da inoltrare al fondo di garanzia dell’INPS, con ovvio ritardo nell’incasso del dovuto.

2. HO LA CERTEZZA CHE RECUPERERO’ I MIEI SOLDI ?

Ciascun caso dovrà essere sottoposto ad un attento screening preventivo circa la possibilità di un effettivo recupero delle somme dovute, dopo una prima verifica presso le banche dati informative (CCIAA, Registro Protesti, Registro Beni Immobiliari, PRA etc.). In ogni caso, come ultima possibilità, rimane il Fondo Garanzia INPS.

3. COSA DEVO FARE?

Di solito si tenta prima un recupero stragiudiziale con una possibile, ma non indispensabile, intimazione di pagamento a mezzo lettera raccomandata. In difetto di riscontro positivo alla diffida inviata seguirà la fase giudiziale con il ricorso al Giudice del Lavoro e, successivamente, quella dell’esecuzione forzata avanti il Giudice dell’Esecuzione.

Il passaggio alla fase giudiziale comporta necessariamente il rivolgersi al Tribunale del Lavoro, ovvero alla sezione specializzata presente presso ogni sede principale di Tribunale Circondariale. Il Tribunale competente è in linea di massima quello del luogo ove si è svolto il rapporto di lavoro, dove questo è cessato o quello del luogo ove ha sede il soggetto datoriale.

4. QUANTO TEMPO OCCORRE?

Per i lavoratori l’accesso alla giustizia è facilitato dalla previsione da parte del legislatore della possibilità di ottenere un decreto ingiuntivo su cedolino (art. 633 c.p.c.). E’ infatti previsto che chi vanta un credito fondato su prove documentali (la busta paga è ritenuta tale) può usufruire di una procedura speciale che consente di ottenere in poco tempo l’emissione da parte del giudice di un ordine di ingiunzione nei confronti del datore di lavoro per il pagamento immediato di un importo pari alle somme indicate nella busta paga maggiorate di interessi e spese.

5. COS’E’ IL DECRETO INGIUNTIVO?

L’emissione del decreto ingiuntivo non avviene in contraddittorio (non si tratta di una lunga causa) e il datore di lavoro può dire la sua solo dopo la sua comunicazione (a mezzo notifica). Per ottenere il provvedimento del Giudice favorevole al dipendente è necessario depositare un ricorso per decreto ingiuntivo con allegato il cedolino paga non saldato.

6. E SE LE BUSTE PAGA NON MI SONO STATE CONSEGNATE?

Molto spesso accade che il datore di lavoro non consegni tutte le buste paga e, magari, ometta proprio l’ultima che contiene anche il computo del TFR e delle altre competenze di fine rapporto.

In tale caso non ci si deve però arrendere: la stessa ingiunzione si può anche richiedere per la consegna dei cedolini mancanti oppure per il pagamento in base a dei conteggi analitici redatti da un consulente.

Il Giudice, verificata l’esistenza del rapporto di lavoro intercorso, emetterà decreto d’ingiunzione con l’ordine di consegnare le buste mancanti o, se lo riterrà opportuno, il pagamento per le somme derivanti dal conteggio prodotto.

Il rilascio di decreto in assenza di buste paga è prassi in diversi Tribunali. In linea di massima dovrebbe bastare, in tal caso, allegare al ricorso la lettera di assunzione e di dimissioni o licenziamento, le precedenti buste paga, i CUD, il conteggio analitico ed ogni altro documento proveniente dal datore di lavoro che possa essere utile.

7. DOPO L’INGIUNZIONE CHE SUCCEDE? QUANTO TEMPO DOVRO’ ASPETTARE?

Dopo l’emissione del decreto ingiuntivo si dovrà provvedere alla sua notificazione al debitore a mezzo Ufficiali Giudiziari: in generale, chi riceve un’ingiunzione di pagamento del Tribunale ha 40 giorni dalla ricezione dell’atto notificato per fare opposizione all’ordine del Giudice e dare così inizio ad una causa ordinaria per l’accertamento dell’effettività del debito.

Se il debitore (datore di lavoro) non solleva opposizione, decorso il termine di 40 giorni, su istanza dell’avvocato si dichiara il decreto ingiuntivo definitivo e da qual momento si può avviare l’attività che porterà al pignoramento dei beni del debitore con la richiesta di apposizione della formula esecutiva, ovvero dell’ordine agli ufficiali giudiziari ed alle cancellerie (in calce al decreto) di darvi esecuzione.

8. SI POSSONO ABBREVIARE I TEMPI?

Si. Nei decreti ingiuntivi nascenti da crediti da lavoro documentati da buste paga, si può avere un’accelerazione del procedimento: su istanza dell’avvocato, infatti, il decreto può essere emesso provvisoriamente esecutivo fin da subito, consentendo così l’avvio immediato di ogni attività volta ad aggredire il patrimonio del soggetto moroso (art. 642 c.p.c.).

Assieme al decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo può essere notificato al debitore anche il precetto ovvero l’intimazione con cui si da quello che può essere definito l’ultimo avviso prima di giungere al pignoramento dei suoi beni.

In via ordinaria, il precetto sottoscritto dall’avvocato deve concedere un termine di 10 giorni all’intimato (il datore o ex datore di lavoro) per pagare l’importo ivi indicato, costituito da quanto non pagato in cedolino, gli interessi e le spese legali liquidate in decreto ingiuntivo oltre a quelle inerenti il precetto medesimo (art. 480 c.p.c.). Ancorché si tratti di prassi non diffusa, in ragione della natura del credito e dell’urgenza del suo incasso, l’avvocato può chiedere al Giudice del lavoro che emette il decreto anche di esentarlo dall’aspettare il termine di 10 giorni prima di passare al pignoramento.

Al verificarsi di tali condizioni, il pignoramento può essere chiesto nello stesso momento in cui si porta in notifica il decreto ingiuntivo unitamente al precetto, altrimenti bisogna aspettare il decorso di gg. 10 dalla notifica.

9. COME FACCIO A RIFARMI SUL PATRIMONIO DEL DEBITORE?

Il pignoramento è il primo atto di esecuzione e serve per aggredire il patrimonio del debitore e soddisfarsi su di esso: ciò può avvenire su beni mobili, beni immobili e su crediti presenti presso terzi.

Si può perciò chiedere, sempre a mezzo del proprio avvocato, che i beni del debitore siano venduti all’asta per soddisfarsi sul loro ricavato o che i crediti del debitore verso soggetti terzi siano messi a disposizione e pagati direttamente al lavoratore fino alla concorrenza del suo credito.

Senza cercare la messa in vendita di beni (la maggior parte delle volte onerosi e di scarso realizzo), si possono aggredire i depositi in banca o i crediti verso i clienti dell’azienda. Ciò è ottenibile in poche settimane e spesso può creare una certa pressione nei confronti del debitore che vede congelati i propri conti bancari o messi in pericolo i più ampi rapporti con la propria clientela. Si deve, infatti, sapere che dopo il pignoramento si apre un processo di esecuzione con un iter procedurale che, se da un lato condurrà alla liquidazione coattiva della parte di patrimonio datoriale aggredito, dall’altro occuperà un periodo che può protrarsi anche per alcuni mesi.

Per questa ragione si deve sempre ricordare che il fattore tempo è essenziale e che chi comincia prima ha le migliori chances di ottenere dei risultati positivi.

Tuttavia, molto spesso questo non basta: la crisi economica porta le aziende vicine al collasso, o persino oltre, ed è perciò necessario adottare terapie d’urto per affrontare situazioni estreme.

10. COSA FARE SE NON SI TROVANO BENI?

In carenza di risultato dell’attività esecutiva, ovvero in presenza di pignoramenti negativi, vi sarà la possibilità di proporre istanza di fallimento.

Giunti a questo punto, anche i datori di lavoro più irriducibili dovrebbero mollare la presa e pagare il dovuto. Si deve, tuttavia, ricordare che la crisi ha ridotto molte imprese allo stato di decozione cosicché al decreto ingiuntivo del dipendente può seguire la dichiarazione di fallimento dell’ex datore di lavoro. Questo, però, non è necessariamente un danno.

11. COS’E’ IL FONDO DI GARANZIA DELL’INPS?

La richiesta di fallimento dell’ex datore di lavoro ha, infatti, sia lo scopo di indurre il pagamento, quale extrema ratio di salvezza dell’imprenditore, sia, in ultima alternativa, il consentire l’accesso al Fondo di Garanzia dell’INPS per il pagamento del credito maturato o di parte di esso.

Presso l’INPS esiste, infatti, un Fondo di Garanzia che copre e paga le ultime tre mensilità ed il TFR dei lavoratori delle imprese che siano state insolventi con i propri dipendenti. I presupposti per il pagamento da parte dell’ente previdenziale sono diversi in base al tipo di società.

12. MI SERVE UN AVVOCATO, DOVRO’ ANTICIPARE DELLE SPESE, MA SE NON ME LO POSSO PERMETTERE?

Tutti coloro che hanno un reddito annuo familiare inferiore ad un determinato importo, possono avvalersi dell’istituto del patrocinio a spese dello Stato anche per il recupero di quanto spetta per il lavoro prestato; ciò consente a ogni dipendente che ne abbia i requisiti di scegliersi un avvocato iscritto in apposite liste presenti presso l’Ordine degli Avvocati che, senza spese, proponga per suo conto un decreto ingiuntivo o altra azione giudiziale contro il datore di lavoro che non paga.

 

Avv. Pietro Cotellessa


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