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La sentenza che fa discutere: il dipendente comunale che falsifica le presenze non va licenziato.

marzo 09, 2014
by Pietro Cotellessa
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E’ sproporzionato il licenziamento del dipendente che attesta falsamente la presenza in servizio. A questa conclusione è giunta  la Corte d’Appello di Torino, con la sentenza datata 8 gennaio 2014 accogliendo il ricorso e riformando, quindi, la decisione del giudice di prime cure che invece aveva ritenuto legittimo un licenziamento comminato da un Comune ad un proprio dipendente per false attestazioni di presenza in servizio.

Al dipendente, titolare di posizione organizzativa e quindi avente in godimento uno stipendio onnicomprensivo, erano contestate poco più di 18 ore di assenza in due anni a fronte di oltre 300 ore di prestazione straordinaria non retribuite, non ravvisandosi per questo un danno economico per l’Amministrazione di appartenenza.
Le irregolarità nelle timbrature erano emerse all’esito di verifiche sui tabulati del telefono di servizio in uso all’appellante e degli appostamenti effettuati dal personale della sezione di Polizia Giudiziaria presso la Procura della Repubblica, che comunque, stante la mancanza dell’elemento patrimoniale, aveva concluso per l’archiviazione in sede penale dell’ipotesi di truffa aggravata.
La Corte torinese ha accolto la tesi sostenuta dal dipendente volta alla declaratoria di sproporzionalità della sanzione espulsiva, seguendo un articolato ragionamento.
Poichè al momento della commissione dei fatti il Ccnl 22/01/2004 vigente non solo non prevedeva la sanzione espulsiva per la timbratura falsificata, ma sanzionava con la sospensione dal servizio da 11 giorni a sei mesi comportamenti anche di maggiore gravità rispetto a quello oggetto di giudizio (quali: assenza ingiustificata ed arbitraria dal servizio per un numero di giorni superiore a dieci sino a quindici; persistente insufficiente rendimento o fatti, colposi o dolosi, che dimostrino grave incapacità ad adempiere adeguatamente agli obblighi di servizio; atti, comportamenti o molestie, anche di carattere sessuale, di particolare gravità che siano lesivi della dignità della persona), il giudice di secondo grado ha ritenuto di dovere comparare a fini interpretativi il contratto al momento vigente con quello successivamente intervenuto, anche se non direttamente applicabile alla fattispecie concreta.

E’ una decisione che fa riflettere sul divario esistente tra la contrattualistica applicata ai dipendenti pubblici e quella dei dipendenti privati.  In una situazione similare, in ambito privatistico, si sarebbe certamente giunti a conclusioni diverse in base alle normative in vigore. La questione, ad ogni modo, passerà al vaglio della Corte di Cassazione.

Avv. Pietro Cotellessa

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